La passione per il vino rosso
Il Veneto è una gran bella regione, spesso penalizzata da pregiudizi e gente che, millantando un grande attaccamento alla propria terra, non fa altro che lederne l'immagine.
Il Veneto è anche la terra di grandi vini, legata soprattutto all'Amarone ed al Prosecco, ma non sono soli.
Elio Ottin, originario di Saint Denis, perito agrario, frutticoltore e viticoltore come molti in Valle d’Aosta è dal 2007 che grazie alla qualità dei suoi vini riesce a farsi notare sempre più.
Etichette curate, fini, senza troppi fronzoli ma belle.
Vitigni autoctoni e Pinot Nero, concimazioni minime e trattamenti ridotti all’osso, giusto il necessario per evitare oidio e peronospora.
Torniamo ad occuparci di Terredora dopo la bellissima esperienza vissuta alcuni mesi fa in cantina, a Serra di Montefusco, in provincia di Avellino. In quell’occasione degustammo dodici vini dell’azienda di annate non più in commercio, tra cui sette millesimi dei tre diversi Taurasi che si fanno in azienda.
Ed oggi parleremo proprio di un Taurasi non più in commercio, per la precisione del Taurasi Fatica Contadina 2000, bottiglia che acquistai quando ancora non conoscevo Paolo Mastroberardino, proprietario e guida dell’azienda. Taurasi che questa volta ho degustato a casa mia, a cena con amici, accompagnandolo ad una preparazione a base di coniglio stufato, guarnito da un contorno di melanzane e patate.
Terredora conduce un vigneto di circa 200 ettari, interamente ubicati in Irpinia e coltivati con i principali vitigni campani come l’Aglianico, il Fiano, il Greco o la Falanghina. L’azienda vinifica direttamente le proprie uve da oltre vent’anni e oggi produce e distribuisce oltre un milione di bottiglie.
Il Taurasi si fa esclusivamente con uve Aglianico e quelle che concorrono alla produzione del Fatica Contadina provengono dai vigneti di proprietà situati in Lapio e Montemilletto. I terreni di matrice argilloso-calcarea, di antiche origini vulcaniche, si caratterizzano per importanti pendenze, fattore determinante per la qualità del prodotto finale. Questi pendii, infatti, favoriscono la migliore insolazione, che permette la perfetta maturazione delle uve, oltre a una buona ventilazione, che riduce l’umidità e inibisce, tra l’altro, la formazione di muffe. Le pendenze impediscono tra l’altro il ristagno dell’acqua, favorendo in tal modo lo stress idrico, con un favorevole contributo in termini di deposito di polifenoli sulle bucce dell’uva. Le forti escursioni termiche tra giorno e notte, oltre che tra le stagioni, permettono infine il miglior sviluppo degli aromi. Caratteristiche che ritroveremo poi nel vino.
Al termine della visita in cantina, pranzo con Ernesto Abbona, Presidente della Marchesi di Barolo, nella foresteria, raffinato ristorante all’interno dell’azienda. È stato servito un menu degustazione a cui sono stati accostati alcuni dei vini più rappresentativi dell’azienda. E qualche chicca ...
Cominciamo con una Barbera d’Alba Piagal 2012, fresca, profumata, perfetta con l’antipasto. Quindi ad uno ad uno i tre cru di Barolo annata (2011): prima il Costa di Rose, poi il Cannubi, quindi il Sarmassa. Il primo profumatissimo, floreale. Mai nome di un cru è stato così appropriato. Dopo qualche minuto di sosta nel calice si apre a sentori di cipria e a note fruttate, tabacco, liquirizia dolce e mentuccia. Etereo. Il Cannubi appare subito elegante, con profumi più profondi, fruttati in confettura e di sottobosco, tabacco e balsamici: raffinato ed equilibrato. Il Sarmassa è più austero, mascolino, è rimasto chiuso per oltre venti minuti per poi aprirsi lentamente a note di viola, china e sentori terrosi di fungo e tartufo. Torniamo più volte sui calici già riempiti, mentre via via ne portano altri per versare il vino successivo.
Siamo così passati al Barolo 2010, il Barolo della tradizione, assemblaggio di diversi cru aziendali. Fruttato ed equilibrato. Piacevolissimo. Poi arriva il Cannubi 2005, dalla singolare etichetta color verde. “Questa etichetta è stata scelta per differenziare questo vino dal Cannubi che è stato imbottigliato alcuni anni fa. Questo è rimasto in affinamento per molto più tempo ed è stato quindi imbottigliato di recente”. Noi appassionati corriamo quindi il “rischio” di imbatterci in due Barolo Cannubi 2005 dei Marchesi di Barolo che hanno seguito due strade differenti. Subito sentori di canfora e una profumatissima violetta ancora fresca, che lasciano presto spazio a note più terziarizzate di tabacco, caffè, noce moscata e alloro.
Siamo a Serralunga d’Alba, nella zona sud-orientale del comparto produttivo del Barolo. Da un punto di vista geologico, il territorio è emerso dal mare in un’epoca più antica, nel periodo cosiddetto Serravalliano, circa 15 milioni di anni fa. Sul versante ovest del territorio comunale, nella parte rivolta verso il paese di Monforte d’Alba, si estendono i 12 ettari di vigneto di proprietà della cantina della famiglia Pira, oltre metà dei quali coltivati a Nebbiolo da Barolo.
Tre i differenti vigneti storici e rinomati in cui il Nebbiolo da Barolo viene prodotto: il Marenca, il Margheria e il Vigna Rionda. Oltre a questi, l’azienda conduce anche il vigneto Le Rivette, le cui uve concorrono alla produzione del Barolo del Comune di Serralunga.
Il terreno in cui si trovano questi cru è composto dalle cosiddette Formazioni di Lequio, ossia da marne grigie alternate ad arenarie costituite da sabbie silicee, che, in presenza di carbonato di calcio e ferro, prendono una tonalità di colore tendente al bruno. Questa composizione del terreno, assieme a una viticoltura molto attenta alle basse rese, è responsabile dell’austerità che caratterizza molti dei Barolo di Serralunga, come anche della durezza della trama tannica. Altra connotazione tipica di questi grandi vini è la necessità di farsi attendere nel tempo per la loro migliore espressione e, più in generale, per una loro maggiore longevità.
Abbiamo già discusso del Ruchè di Castagnole Monferrato a proposito dei vini di Montalbera e di Franco Morando. Torniamo a parlarne per raccontare l’Opera Prima di Luca Ferraris, una differente interpretazione del Ruchè e del suo territorio.
La denominazione – che ricordiamo è Docg dal 2010 – si estende per 136 ettari in 7 comuni del Monferrato Astigiano. Nel comparto, un’ottantina di aziende vinificano differenti versioni di Ruchè, vino di nicchia prodotto con l’omonimo e raro vitigno autoctono.
L’uva, che certamente non si distingue per l’importanza del corredo polifenolico della buccia, normalmente darebbe vita ad un vino profumato, con delicati sentori floreali, certamente poco adatto all’invecchiamento. Il progetto Opera Prima ribalta questo paradigma, diventando l’emblema di come l’interpretazione del territorio, unita all’accurato lavoro in vigna e in cantina, possano portare a risultati davvero sorprendenti.
Ma andiamo con ordine.