Il tema centrale è senz’altro l’incremento dei costi: cartone raddoppiato, vetro +25%, tappi +40%, trasporto su gomma +25%, noli marittimi + 400% (rispetto al 2020). Ma c’è anche il tema della disponibilità delle materie prime: molte cartiere si stanno fermando o stanno rallentando la produzione; per il vetro la situazione è a dir poco drammatica; per alcuni settori molto energivori, come le distillerie, il continuo aumento del prezzo dell’energia sta avendo effetti disastrosi.
Tornando ai numeri incoraggianti, lo scorso anno l’equivalente di 600 milioni di bottiglie di vino italiano ha preso la direzione di Usa e Canada, per un controvalore di 2,7 miliardi di dollari e una crescita sul 2020 del 17%. Nello stesso anno i due Paesi nordamericani hanno totalizzato un import di vino per più di 9,3 miliardi di dollari, quasi 1/4 del valore globale delle importazioni di vino.
È tutto oro, quindi, ciò che luccica nel mercato più ambito dai produttori italiani? Non è proprio così e non soltanto per l’incremento dei prezzi e la scarsità delle materie prime o per i venti di guerra. Esiste anche una questione demografica che rischia di cambiare profondamente nel tempo l’assetto dei consumi nel primo mercato al mondo, gli Stati Uniti. Negli ultimi tre anni gli Usa hanno perso 12 milioni di consumatori regolari di vino (passati da 84 a 72 milioni nel 2021), in un quadro attuale che vede quasi la metà dei wine lovers concentrati nella fascia più anziana. Ad abbandonare il calice di vino, sono le persone più giovani (tra 21 e 41 anni), artefici di una emorragia da 11 milioni di consumatori. A oggi questa fascia della popolazione – circa la metà dei consumatori – vale solo il 28% del mercato.
Inoltre, l’inflazione galoppa anche negli Stati Uniti (+7,9%, al livello più alto da 40 anni) e il vino italiano rischia di fermare la propria corsa nel primo mercato al mondo. Questa congiuntura produrrà danni importanti alle esportazioni oltreoceano del vino italiano.
Numeri dunque incoraggianti, in un contesto internazionale, tuttavia, molto critico e con trend severi e preoccupanti. E non è ancora tutto.
Girando per la fiera ho avuto modo di soffermarmi presso gli stand di Terredora, Casale del Giglio, Dei e molti altri. Ma alcuni dei produttori storici non erano presenti, mentre altri dubitano di partecipare il prossimo anno. Due anni di pandemia hanno costretto loro certamente ad operare forti risparmi, come i costi che si sostengono per esser presenti in fiera. Ma due anni di assenza hanno anche reso consapevoli molte realtà del vino, che si può far affari con l’estero anche prescindendo dalla fiera.
Per non parlare della presa di posizione del presidente del Consorzio di tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani, Matteo Ascheri, secondo cui “per i produttori è arrivato il momento di dire addio al Vinitaly perché” - a suo dire – “oggi esistono strumenti più efficaci ed economici per far conoscere i loro vini”.
Insomma, registriamo sicuramente una forte ripartenza del vino italiano, con Vinitaly come emblema del nostro intero movimento enoico: tra luci ed ombre, con fosche nuvole all’orizzonte e nuovi trend da interpretare.